La pesca non commerciale divide il mondo in due. Da una parte chi pesca per divertirsi e dall’altra chi lo fa per sfamarsi. Ma la separazione non è proprio così netta e l’argomento non è affatto nuovo, visto che se ne trova ampia testimonianza nel dibattito sulle stesse definizioni che stanno alla base di leggi e regolamenti. Nel nostro contesto socioeconomico si è semplificata la materia con la distinzione secca tra commerciale e ricreativo, che ha sue regole separate e soprattutto che non destina i pesci alla vendita. I pesci possono essere destinati al consumo diretto, ma la stessa definizione di ricreativa suggerisce che la pesca è principalmente finalizzata allo svago: un passatempo. Viceversa in molta parte del mondo i pescatori non commerciali sono quelli che cercano di prendere pesci principalmente per avere qualcosa da mangiare e che si divertano a pescarli non importa proprio niente. Il contrasto è talmente stridente che naturalmente non basta a descrivere la realtà. Andando alla radice del problema, occorre considerare che le risorse della pesca sono pubbliche, ovvero appartengono a tutta la comunità e servono in questo senso a garantire la possibilità di un approvvigionamento alimentare diretto. Non si tratta di un artificio normativo, ma di una base concettuale centrale e non eludibile che proviene dalla pratica ancestrale e che viene riaffermata come prioritaria rispetto a tutte le tradizioni dei diritti esclusivi che sottraggono l’accesso alle risorse a beneficio di un qualche interesse particolare. Nel nostro caso l’interesse è diventato quello della cosiddetta filiera, che ha dalla sua il pregio di fornire risorse a tutta la comunità che non vi accede direttamente andando a pescare. Una demarcazione concreta si trova nella distinzione tra contesti agiati e povertà, dove nel primo caso la pesca tende a essere praticata principalmente per svago, mentre nel secondo lo è per bisogno o quanto meno come accessorio significativo al sostentamento individuale e familiare. Sul versante del ricreativo ‘puro’, di chi non è interessato ai pesci come risorsa alimentare e che non li considera una merce, ridurre la pesca a solo divertimento è rischioso e rappresenta in qualche modo una degenerazione che si estende da un punto di partenza ben delimitato e motivato nelle politiche di gestione di determinate risorse, diventando un approccio a se stante. Al contrario della pesca di sostentamento, la pesca ricreativa viene considerata qualcosa di cui si può fare a meno, ma il problema è che c’è chi se ne approfitta e sarebbe la pesca illegale o almeno una parte di essa. D’altra parte in alcuni contesti anche nelle società più ricche ci sono sacche di disagio nelle quali esiste una pesca realmente di sostentamento. Certo non dovrebbe, perché non dovrebbero esistere contesti di povertà tali da dover contare sui pesci per andare avanti, ma tant’è. Sembra un ammortizzatore sociale che resta di fatto parte di una diffusa pratica di pesca illegale che opera in larga parte non a fini di sostentamento ma di semplice lucro. Gioco facile per la pesca commerciale additare quella ricreativa come covo di illegalità usando un argomento generico per evitare di concordare sulla necessità di interventi normativi e tecnici dai quali pensa di essere la prima a poter temere qualcosa. L’occasione si dice faccia l’uomo ladro e di occasioni riguardo ai pesci ce n’è abbondanza. Si dovrebbe capire dove stia il confine tra sopravvivere, vivere un po’ meglio e approfittarsene: è sostentamento quello fatto da chi non ha niente da mangiare, quello di chi ne ha poco, quello di chi vendendo pesci paga qualche bolletta o infine quello di chi ci ripaga il carburante o ci si mantiene la barca? Stando nei limiti esiste un sostentamento perfettamente legale, ma chi deve ricorrervi, quando gli capiti di pescare qualcosa che eccede le norme rinuncerà al surplus di proteine o di contante dalla vendita illegale? Al di là di un eventuale vero sostentamento, l’illegalità riguarda essenzialmente due contesti. Uno è la semplice possibilità di fare lucro indipendentemente dal bisogno, l’altro è il cogliere l’occasione, quando si prende tanto e quando non fa parte della nostra concezione della pesca il non eccedere le regole. Sia per farsi vedere bravi, che per sentirsi bravi, sia per compensare la pesca infruttuosa che per semplice vuoto mentale, endorfine, cupidigia o testosterone mal indirizzato, sono tanti i pescatori ricreativi che poco abituati ad avere occasioni per poter superare i limiti dei regolamenti ci cascano come pere cotte, se eventualmente non lo fanno di proposito. L’altra faccia della medaglia è altrettanto significativa se non altro per via del fatto che muove un settore economico rilevante ed è quella del ricreativo ‘puro’, il cui problema rischia di diventare, all’opposto, non voler fare i conti con le sue radici naturali. Passare dalla giustificazione di necessità certificata dai regolamenti e dalla buona pratica di auto limitazione a un credo del no kill, è facile e come sappiamo rischia di farci diventare torturatori di pesci agli occhi di qualcuno. Qualcuno che per la verità è abbastanza preso dal credo opposto, da valutare se sussista un bisogno. Ammettendo così una pesca di sussistenza e non una propriamente ricreativa. Anche qui naturalmente c’è una falla evidente, che però richiede un po’ di ragionamento. Serve infatti considerare il valore intrinseco della predazione diretta, dell’approvvigionamento alimentare non mediato, dei suoi aspetti non solo materiali, il tutto senza considerare ciò che non è né valore individuale, né finalizzazione alimentare. Valori positivi in ambito sociale, economico, spirituale, fisico e mentale, insieme a un’opportuna integrazione nella catena alimentare degli ecosistemi non possono che smentire le posizioni dello specismo ideologico nei confronti della pesca individuale non commerciale, altrimenti detta ricreativa. L’argomento è complesso, ma per sintetizzare dovremmo realizzare come la pesca non può distaccarsi completamente dal fine alimentare, ovvero pescare pesci per mangiarseli, e sul versante opposto la pesca di sostentamento dovrebbe essere riconosciuta come una realtà; se si vuole ridurre o eliminare, richiede di intervenire da una parte sull’alleviamento dei contesti di povertà e dall’altro su una specifica regolamentazione e su una efficace politica di controllo. Lo stato attuale è far finta di niente, si sa, ma basta che questo non produca dati autorevoli capaci di percorrere i labirinti della burocrazia per poter continuare a soprassedere. Forse un po’ di pragmatismo e di buona gestione consiglierebbero al contrario di iniziare ad affrontare il problema risalendo la scala delle competenze da quelle locali a quelle sovranazionali per dare una definizione e un controllo concreto a una realtà che esiste e che prospera nei suoi aspetti di maggiore impatto sulle risorse proprio grazie alla zona grigia nella quale si continua a tenerla.
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