Da pescatori ci interessano molto i fiumi, quelli che a volte abbiamo sentito e ancora continuiamo a sentir chiamare fiumi assassini, cosa insopportabile per noi che invece i fiumi li conosciamo, li viviamo, li amiamo. Continuiamo a sentirci dire che i danni e i lutti causati dalle piene dipendono dalla mancata manutenzione. La manutenzione solitamente si fa dopo i disastri ed è stata di volta in volta resa conveniente per l’estrazione dei cosiddetti inerti, per le disastrose regimazioni degli alvei e più recentemente con il meccanismo delle biomasse. Nelle aree più evolute, ormai, si prendono due piccioni con una sola fava: basta tagliare tutta la vegetazione delle sponde per evitare accuse di mancato intervento quando piove troppo e, soprattutto, per avere materia prima vegetale da far marcire per produrre energia e relativo utile economico. Quando i danni sono forti è inevitabile il nulla osta ai dragaggi, alle briglie, alle difese spondali. Eppure sono gli stessi fiumi a insegnarci qual è la difesa spondale che funziona ed è proprio quella che va eliminata per fare manutenzione, illudendosi di difendere quanto ci è stato costruito in mezzo.
In TV le alte cariche dello Stato danno ancora la colpa dei disastri al fatto che non si è ‘dragato il torrentello’ e ‘tagliato l’alberello’. Banale ricordare che si è costruito su terreni dove si sapeva benissimo che passavano le piene. Sappiamo qual è il tempo di ricorrenza, ovvero, mediamente, ogni quanti anni in un determinato luogo passa una piena con una determinata portata. Ultimamente ci sono eventi eccezionali che superano i dati di media e le serie storiche, per cui anche quello che prima sarebbe sembrato abbastanza prudente forse oggi può non esserlo più. Certo ci sono città storiche e infrastrutture soggette agli eventi di piena, per cui la difesa a livello di bacino è indispensabile e come tale dovrebbe essere considerata, limitando però le aree da difendere e allargando quelle di pertinenza fluviale, che costituiscono la vera garanzia per non spalmare il problema su tutto e su tutti. Gli alvei di molti fiumi e torrenti sono stati usati come aree comode dove edificare. Il paesello è arroccato sulla collina, chissà se solo per difendersi da nemici in armi. Per nuove aree residenziali, commerciali, industriali, niente di meglio della spianata tra la collina e il fiume. Sembra chiaro no? Comunque quel che è fatto è fatto, probabilmente fatto tanto tempo fa da rendere inutile anche il contentino di andare a ricercare i responsabili. Di necessità virtù, dover regimare il fiume e dover poi costantemente fare manutenzione quanto meno crea lavoro. Una volta vicino al fiume si costruiva solo quello per cui c’era bisogno di acqua corrente, essenzialmente molitura, metallurgia, concia, trasporti. Adesso invece ci sono vastissimi insediamenti recentemente edificati in aree esondabili, protetti da opere costruite dopo il più recente disastro, una inezia nella storia geologica ma anche una garanzia per una ininterrotta necessità di interventi che, detto digrignando i denti, fanno PIL. Sarà che dopo molitura, metallurgia, concia e trasporti sia arrivato il business della manutenzione.
I cambiamenti climatici accrescono il rischio e l’occorrenza di eventi eccezionali, ma nel caso della gestione dei bacini idrografici è bene non dimenticare la lunga storia delle regimazioni e delle cosiddette bonifiche e la sua repentina accelerazione novecentesca. Da cittadini ben prima che da pescatori vorremmo che lutti e rovine servissero a non insistere pregiudizialmente su un’impostazione che si è dimostrata e continua a dimostrarsi perdente, per iniziare invece a tornare verso una logica di sostenibilità dell’antropizzazione del reticolo idrografico. C’è voluto molto tempo per sconvolgere l’equilibrio idrogeologico ed è prevedibile che ce ne vorrà molto di più per permettergli di ristabilirsi, per cui, ragionando una volta tanto sul lungo periodo e considerando anche la realtà dei cambiamenti climatici, sarebbe urgente cominciare a lavorarci.
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