Sono almeno due decenni che le istituzioni si confrontano sul problema della gestione della pesca in acque interne tramite immissioni. La pesca ricreativa come la conosciamo si è trasformata e sviluppata proprio sulla base del meccanismo che prevede di intervenire sulla fauna ittica per sostenere e incentivare la domanda di pesca anziché regolare la pesca per adattarla alla disponibilità naturale di risorse. Un sistema che ha concorso alla diffusione di specie aliene invasive, che hanno trasformato radicalmente le comunità ittiche della gran parte delle nostre acque interne e che si è anche sentito eccentricamente proporre come misura di incremento della fauna ittica marina. Nelle sedi prima provinciali e poi regionali si è continuato a rispondere alla domanda di pesca ricreativa con provvedimenti dichiarati illegittimi dallo Stato, che ha ripetutamente confermato il divieto di introduzione di specie ittiche non autoctone. D’altra parte lo Stato sta continuando a intervenire per limitare le norme regionali non conformi ma evita di farlo per definire l’argomento delle specie alloctone mettendo chiarezza ed evitando ulteriori casi di non conformità. Dopo il caso del Veneto, quello del Friuli Venezia Giulia sembra mettere definitivamente un punto fermo in tema di immissioni. Con la sentenza n. 98/2017 la Corte Costituzionale si è espressa contro la decisione del Friuli Venezia Giulia di concedere l’immissione di specie alloctone (Oncorhynchus mykiss e Salmo trutta) in alcune acque come previsto dalla legge n. 4 del 08/04/2016 in special modo nell’art. 72 che introduce modifiche alla legge regionale 19/1971 concernente «Norme per la protezione del patrimonio ittico e per l’esercizio della pesca nelle acque interne del Friuli-Venezia Giulia» («L’immissione degli esemplari alloctoni è ammessa nei corpi idrici artificiali la cui eventuale connessione con corsi d’acqua naturali non consenta l’emigrazione dei pesci immessi»). La sentenza della Corte Costituzionale ha due motivazioni principali: la competenza su questioni ambientali è in capo allo Stato e l’attuale legislazione non permette l’introduzione di specie non autoctone.
Il fervore con cui si continuano a invocare le immissioni lascia sottintendere che i pescatori le ritengono indispensabili per poter svolgere una soddisfacente attività alieutica. Una pratica diventata tanto consuetudinaria da modellare le attività di pesca e da dissipare per lungo tempo larga parte delle risorse economiche destinate alla gestione. Il modello di gestione tramite immissioni è legato alla produzione di materiale ittico quasi sempre non autoctono e la sua resistenza è fondata anche sulla assoluta latitanza dello Stato che, a parte cassare le decisioni prese da chi non ne ha il diritto, persevera nel non fare chiarezza, tramite una legge quadro, su specie, areali e quanto di sua competenza, rendendosi di fatto complice del disordine con cui si stanno muovendo le Regioni. I pescatori rischiano di trovarsi in un vicolo cieco se non riusciranno a ritrovare le radici della loro attività e ad operare tramite le loro organizzazioni perché la pratica delle immisioni sia riportata alla sua originaria funzione di misura straordinaria finalizzata a ristabilire equilibri ittici compromessi e accessoria rispetto alla rimozione delle cause del degrado, in primo luogo quella della sostenibilità dello sforzo di pesca. Abbiamo due decenni di ritardo che la pesca ricreativa sembra aver impiegato per difendere una posizione che già dall’inizio mostrava di essere destinata a cadere. Due decenni di sopravvivenza di una cultura della pesca ancora radicata nel contesto socioeconomico del dopoguerra. Due decenni che forse avrebbero permesso un passaggio graduale e non traumatico verso diversi modelli di gestione, che diventano ogni giorno di più una necessità urgente per evitare un tracollo del settore.
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