È cosa nota che i pescatori ricreativi e quelli commerciali si lanciano accuse reciproche per il degrado della pesca. In genere le accuse sono tutte fondate, anche se non lo sono sempre e dovunque. I commerciali fanno distinzione tra diversi approcci alla pesca ricreativa, ma quello che interessa loro è il prelievo, ovvero la concorrenza per le risorse. Dove si stima un rapporto di 1 a 10 nell’estrazione di risorse ittiche tra ricreativo e commerciale, sembra che quel dieci per cento di pescato non destinato alla filiera sia un’enormità. Ovviamente alla base di tutto questo c’è la concezione alla rovescia di una prelazione dello sfruttamento commerciale sul diritto naturale individuale, tanto che con il novanta per cento di sbarchi gli sembra anche di starci stretti. Certo il diritto naturale individuale decade se il pescato non commerciale viene venduto o se si infrangono i regolamenti e proprio qui sta il punto, visto che la cosa accade spesso, dal che è evidente che i commerciali di ragioni un po’ ne hanno. E un po’ ne hanno anche riguardo alla filastrocca secondo la quale la pesca ricreativa non incide sulle risorse; bisogna infatti vedere quali risorse, pescate come e dove, e considerare lo sforzo realmente applicato da un certo numero di fruitori in una determinata zona di pesca. Tutto vero, se non che i commerciali che ce lo fanno notare evitano di aggiungere all’equazione la loro parte, quella ad esempio delle reti onnipresenti davanti alle foci o della circuizione, sulle ricciole imbrancate, delle ricciolette e delle leccette da un palmo nella cassette di polistirolo, delle orate in frega e così via. In un recente articolo pubblicato su pesceinrete.com a firma S. Ragonese – Stiamo facendo il deserto nella fascia costiera italiana e l’abbiamo chiamato ‘Pesca ricreativa’ – una lunga disamina prende particolarmente in considerazione la pesca subacquea e la zona grigia del commercio illegale di pesci ‘non commerciali’. Per noi è abbastanza facile capire come la prospettiva di un pescatore commerciale possa essere parziale e condizionata, come del resto sicuramente un po’ lo sarà anche la nostra, ma alla fine, se non fosse per lo scaricabarile, ci sarebbe molto da condividere, a partire proprio dalla concezione stessa della pesca ricreativa.
Ad esempio, si potrebbero fare delle distinzioni per applicare gestioni specifiche e separate che tengano conto del tipo di pesca, e su questa base realizzare una pianificazione spaziale della gestione, che in pratica significa fare distinzioni a seconda degli ambienti, delle tecniche e dello stato delle risorse nei diversi contesti. Subacquea e attrezzi passivi sono i migliori esempi. La parola importante che identifica la pesca non commerciale è comunque ‘ricreativa’, con la quale sembra che ci venga dato un diritto culturale a divertirci con i pesci, quando invece il senso vero dell’accesso non commerciale alle risorse della pesca, non restituito dalla definizione, è che ci viene riconosciuto il diritto naturale di accesso (regolamentato) alle risorse ittiche per il proprio consumo alimentare. La differenza è netta perché, se anche il motore delle uscite di pesca può essere il solo divertimento, la prelazione delle risorse pubbliche della pesca è e deve restare pubblica per tutti i cittadini, certamente entro determinati limiti di regolamento e con tutte le belle e solite finalità che tutti vogliono perseguire.
L’allarme sulla desertificazione della fascia costiera è certamente condivisibile, anche se in netto ritardo rispetto a quanto viene denunciato ormai da decenni da almeno una parte dei pescatori ricreativi. D’altra parte, non ci si può nascondere che negli stessi decenni un’altra parte degli stessi pescatori ricreativi ha contribuito in modo significativo all’impoverimento di vari stock ittici costieri. Sembra evidente che non possa essere accaduto per il prelievo legale da parte dei pescatori con la lenza. Potrà forse esserlo stato per la pesca subacquea in certi contesti ambientali, ma il grosso è più che verosimilmente attribuibile alla pesca illegale, al commercio illegale, alla cultura del portare a casa tutto quello che può essere catturato, indipendentemente dalla tecnica di pesca; e in mare sappiamo che quando gira bene è un attimo infrangere i regolamenti e pochissimo di più per danneggiare le risorse. Anzi le risorse le si può facilmente danneggiare anche stando nelle norme, ad esempio prelevando legalmente fino a 5 kg di spigole di 25 cm, come permesso da regolamento. Una cosa che ci dovrebbero spiegare i commerciali, quindi, è perché non sostengono la necessità di modificare i regolamenti, le misure minime e i limiti di carniere.
Per fare sintesi, ci dovrebbe essere chiaro che i commerciali, oltre ad avere torto marcio, hanno anche un bel po’ di ragione dalla loro parte. La cosa giusta sarebbe sfruttare questa ragione per fare qualche distinzione e per sostenere un impegno comune per la gestione delle risorse della fascia costiera. È probabile che chi ci legge qui sia un caso particolare, perché va in foce a mosca o a spinning, rilascia (speriamo) i pesci, rilascia quelli piccoli, rilascia i grandi riproduttori, rilascia quello che non sta nel carniere giornaliero. Èd è da sperare che per i commerciali questo faccia la differenza rispetto a chi sbarca e vende illegalmente. Viceversa, però, lì sulla foce, i commerciali devono tenere le reti lontano, ma proprio molto lontano, al largo, altrimenti ci stanno prendendo in giro. Nel concreto, sembra sempre che la pesca commerciale chieda senza contraddittorio, da fuori e autoritariamente, una regolamentazione più restrittiva per la pesca ricreativa e giustamente la pesca ricreativa reagisce in modo negativo. Allo stesso tempo, anche la pesca ricreativa chiede una revisione dei regolamenti e anche lei in senso restrittivo, caso nel quale la pesca commerciale neanche considera la possibilità di cercare una posizione comune sostenibile di fronte al gestore pubblico. È da dubitare che a breve ci siano progressi in questo senso, se non eventualmente qualche inutile tavolo tecnico alternativamente con addetti che si guardano in cagnesco o che si adulano ipocritamente col coltello dietro alla schiena.
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